“Falkland back to England!” (Falkland tornate all’Inghilterra!) . Questo il sintetico e suggestivo messaggio inviato a Londra il 15 giugno 1982 dal generale inglese Jeremy Moore, al momento della resa delle forze armate argentine che avevano osato invadere le Malvine. Un messaggio che segna la fine della “strana” guerra che trent’anni fa oppose due paesi del campo occidentale, due alleati degli Stati Uniti, una democrazia e una dittatura: la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e l’Argentina del generale Leopoldo Galtieri. Probabilmente l’ultima guerra coloniale, anche se alquanto anomala, visto che la popolazione interessata (i Kelpers, gli abitanti delle isole Falkland/Malvine) ha sempre manifestato il suo deciso attaccamento alla madre patria, senza mai fare stato di particolari simpatie per il nuovo paese sotto la cui giurisdizione sarebbe dovuta passare. Una guerra alimentata più da fattori storici conditi di esasperato nazionalismo e meno da interessi economici. Le potenzialità economico-finanziarie dell’arcipelago, legate soprattutto all’esistenza di notevoli giacimenti di petrolio nelle acque antistanti le isole, sono state in effetti messe in evidenza a posteriori, quali argomentazioni aggiuntive, per giustificare meglio e modulare a piacere le rispettive prese di posizioni politiche. Da una lato, cioè, Londra ha cercato costantemente di sminuire la reale portata delle risorse naturali dell’arcipelago e comunque segnalandone la difficoltà di sfruttamento a breve scadenza, quasi a voler accreditare l’immagine di un intervento militare dettato esclusivamente da motivazioni ideali, a difesa dei principi del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli. Dall’altro, Buenos Aires ha invece esaltato le prospettive di sviluppo economico della regione, proprio nel desiderio di dare un contenuto “quantificabile”, immediatamente percepibile dall’opinione pubblica, alla antiche aspirazioni “irredentiste”. Quasi a voler convincere se stessa che il mancato controllo delle Malvine - che gli argentini ritengono rientrare nell’ambito della loro Piattaforma Continentale - la priva di immense ricchezze naturali (la pesca) e minerarie (il petrolio e il gas naturale). Gli avvenimenti dell’aprile 1982 andrebbero quindi considerati sotto il prevalente angolo visuale di una controversia storica dalle connotazioni fortemente emotive, che ha conosciuto altalenanti fasi e che probabilmente non si può considerare ancora definitivamente risolta, malgrado la dura sconfitta militare inflitta dalla Gran Bretagna all’Argentina nel 1982. Una controversia suscettibile di riaccendersi nuovamente a seguito delle recenti prospezioni inglesi nel sud-Atlantico, che fanno effettivamente stato dell’esistenza di immensi giacimenti di petrolio e che rinvigoriscono profonde motivazioni storico-politiche cementate nel sentimento nazionale due paesi. In Argentina da generazioni le isole Malvine vengono considerate una porzione di territorio nazionale illegalmente e provvisoriamente occupato dagli inglesi e che prima o poi dovrà rientrare nel grembo della madre patria. Nel Regno Unito le Falkland simboleggiano l’onore di una nazione che si erge a difesa dell’autodeterminazione dei popoli (i Kelpers, come accennato, desiderano restare con Londra) e per l’affermazione del diritto internazionale (i titoli di possesso basati sulla prima “scoperta” o sulla Prescrizione Acquisitiva).
Trent’anni dopo, quindi, il fattore economico potrebbe fare da detonatore al risveglio di sentimenti nazionalistici mai sopiti, soprattutto da parte argentina. La tensione potrebbe riemergere dalle gelide acque delle Falkland/Malvine, giacché le valutazioni anglo-argentine continuano ad apparire assolutamente inconciliabili. Buenos Aires ritiene che qualunque attività di perforazione o avvio di sfruttamento, all’interno di quella che considera la propria Piattaforma Continentale, necessiti della sua autorizzazione in base al diritto del mare. La Gran Bretagna, che conserva ancora oggi a difesa delle Falkland un imponente dispositivo militare, replica invece che non c’è niente da negoziare e non riconosce alcun droit de regard degli argentini sulle proprie iniziative in vista dello sfruttamento delle risorse nella zona contesa.
Ma per capire meglio cosa sta accadendo oggi è forse utile fare un salto indietro nel tempo, quando il mondo, stupefatto ed impotente, assiste alla guerra anglo-argentina dei “75 giorni”.
La sequenza degli avvenimenti
Il 22 marzo 1982 un gruppo di operai argentini, prendendo un’iniziativa verosimilmente ispirata dal governo di Buenos Aires, issa la bandiera bianco-celeste nell’isola di San Pedro nella Georgia del Sud e rifiuta di sottoporsi alle previste procedure di immigrazione. Gli inglesi protestano, e, per precauzione, inviano il rompighiaccio Endurance.
Il 30 marzo l’allora Segretario al Foreign Office, Lord Carrington, dichiara illegale lo sbarco degli argentini e fa stato della volontà del suo governo di usare la forza, se necessario.
Il 2 aprile, alle 4.30, le forze armate argentine, al comando dell’ammiraglio Carlo Busser, sbarcano nelle Falkland, ribattezzano la capitale, Port Stanley, in Puerto Argentino, e successivamente prendono possesso delle altre isole dell’arcipelago, la Georgia e le Sandwich meridionali. Gli 84 marines inglesi di stanza nelle isole, di fronte al dilagare degli uomini argentini non potrebbero opporre alcuna resistenza, se non simbolica e per il beau geste. Il governatore di Sua Maestà Britannica, Rex Hunt, decide tuttavia di evitare un inutile spargimento di sangue e, dopo aver avvisato Londra di quanto stava accadendo, si arrende agli argentini. I giornali di Buenos Aires annunciano la buona novella: dopo 149 anni il bianco e il celeste tornano a sventolare sulle Malvine. L’usurpazione inglese del 1833 è stata cancellata! Gli argentini però non hanno fatto i conti con Margaret Thatcher.
Il 4 aprile the Iron Lady prende la decisone di ristabilire l’amministrazione britannica sull’arcipelago e ordina l’immediata costituzione di una specifica task force, posta al comando dell’ammiraglio John Woodward.
Appena un giorno dopo, il 5 aprile, partono da Portsmouth le prime navi inglesi. La strategia di Londra è già chiara e ben definita fin dall’inizio: blocco navale, blocco aereo, ripresa della Georgia, attacco finale alle Falkland.
Il 12 aprile gli inglesi stabiliscono il blocco della Falkland/Malvine per una fascia di 200 miglia marine il cui interno è considerata zona di guerra. Il 19 aprile il blocco viene esteso allo spazio aereo.
Il 24 aprile le navi della Royal Navy vengono poste in “allarme di guerra”. Il 25 aprile elicotteri inglesi Sea King danneggiano il sommergibile argentino Santa Fé situato nel porto di Grytviken, a difesa della isola di San Pedro (Georgia). Subito dopo commandos inglesi sbarcano sull’isola e catturano gran parte dei 185 uomini della guarnigione argentina. Al capitano Alfredo Astiz – l’Angelo biondo tristemente famoso per le sue feroci attività di repressione politica – i britannici non risparmiano l’umiliante cerimonia prevista per la resa. L’Argentina si dichiara “tecnicamente” in stato di guerra.
Il 30 aprile il governo inglese ribadisce che la zona di interdizione viene considerata di “esclusione totale”: qualunque nave o aereo che vi circolerà sarà considerato nemico e quindi attaccato. Le Malvine sono completamente isolate ed il contingente argentino, al comando del generale Mario Benjamin Menéndez, si trova di fatto in stato d’assedio.
Il 2 maggio l’incrociatore argentino Belgrano (l’ex Phoenix venduto dalla Marina americana all’Argentina nel 1951), che sembra dirigersi verso la zona di interdizione, viene implacabilmente affondato dal sottomarino nucleare Conqueror. Muoiono 368 marinai argentini. Verrà successivamente accertato che, in realtà, la vecchia nave argentina navigava lontana dalle acque proibite. E’ quindi legittimo chiedersi se il governo di Londra non abbia voluto “accelerare” le operazioni per concludere e vincere una guerra su cui i conservatori avevano riposto tutto il loro prestigio. La trionfale affermazione della signora Thacther nelle elezioni del “dopo Falkland” potrebbe in effetti far pensare che i tories avessero puntato tutto sulla strategia della vittoria. Più di recente il governo inglese ha finito per ammettere che il Belgrano non si trovava nella zona interdetta. Tuttavia, nelle viste del gabinetto di guerra, rappresentava una minaccia insostenibile per la task force. Ne veniva così deciso l’affondamento secondo nuove regole d’ingaggio, di cui però gli argentini non potevano avere alcun sentore. Perentorio l’ordine finale dato dal Primo Ministro: Sink it! (Affondatelo!).
Il 4 maggio arriva la rappresaglia argentina. Il caccia lanciamissili Sheffield viene irrimediabilmente colpito da missili Exocet in dotazione all’aviazione argentina.
Il 7 maggio Londra decide di ampliare la zona di esclusione totale fino al limite del mare territoriale argentino, a 12 miglia cioè dal litorale. La flotta argentina è più che mai bloccata nei porti.
Il 21 maggio inizia l’attacco principale. Royal marines e paracadutisti prendono terra in gran numero a San Carlos nell’isola di Soledad. La resistenza delle forze terrestri argentine è debole e in alcuni momenti caotica. L’iniziativa di Buenos Aires grava tutta sulle forze aeree, che in questa circostanza si comportano egregiamente e danno parecchio filo da torcere agli inglesi, centrando in pieno proprio in quei giorni le fregate Ardent e Antilope e il caccia lanciamissili Coventry. Particolarmente notate in questa fase sono le prestazioni dell’aereo italiano MB 339 dell’Aermacchi, cui si deve l’affondamento dell’Ardent.
Il 22 maggio l’azione si allarga sviluppandosi in due direzioni - verso nord, lungo la rotabile che conduce a Douglas e in direzione sud, verso Port Darwin - per chiudere a tenaglia la capitale e dare corso all’attacco finale.
Il 28 maggio hanno luogo a Goose Green furiosi e decisivi combattimenti in vista della presa della capitale. Gli inglesi hanno rapidamente la meglio. Il destino delle truppe di occupazione argentine è oramai segnato.
Tra l’11 e il 12 giugno infine - dopo un ulteriore sbarco dei Royal marines a Bluff Cove – si chiude la morsa britannica su Port Stanley e il 15 giugno il generale Menéndez - al quale viene evitato l’umiliante cerimoniale imposto al capitano Astiz- firma col generale Jeremy Moore la resa delle forze armate argentine. 11.000 militari argentini vengono fatti prigionieri.
Il tentativo di Buenos Aires di riconquistare le Malvine è durato 75 giorni. La breve guerra ha causato la morte di 649 argentini (con più di 1000 feriti) e di 258 britannici (con più di 700 feriti). Ma avrà anche qualche effetto positivo: la caduta della Giunta militare e il ritorno della democrazia in Argentina!
Ma che cosa ha spinto gli argentini ad un così rischioso colpo di mano e gli inglesi ad una reazione che ha sorpreso non poco gli osservatori internazionali per la sua fermezza e determinazione? Quali sono stati gli errori, da una parte e dall’altra, che non hanno consentito di giungere ad una soluzione negoziata e hanno fatto fallire tutte le mediazioni internazionali, rendendo inevitabile il ricorso alla forza? Per tentare di rispondere a tali quesiti converrà ripercorrere sinteticamente la controversia esaminandola nei suoi aspetti storici, giuridici e strategici.
Gli antecedenti storici
Gli inglesi assicurano che fu il navigatore John Davis ad avvistare per primo nel 1592 le isole Falkland, seguito due anni dopo dal corsaro della regina Richard Hawkins. “Avvistate”, non visitate. Gli argentini, invece, sostengono che le isole furono “scoperte” intorno al 1520 da uno dei navigatori della spedizione di Magellano che si accingeva ad esplorare la via che collega l’Atlantico al Pacifico. Durante due secoli in ogni caso le isole furono mèta di diverse spedizioni, cambiando ogni volta di nome e di “proprietario”. Per Davis furono le Southern Islands; per Hawkins Hawkins Meiden Land; per l’olandese Sebald de Weert le Isole Sebaldine; per il corsaro William Cowley le Isole Pepys. Finalmente nel 1690 il navigatore inglese John Strong diede al canale che separa le due isole principali il nome di Falkland Sound, in onore dell’allora tesoriere della Royal Navy, lord Falkland. Il nome poi si estese a tutte le isole.
Nel 1764 iniziò il primo tentativo di colonizzazione delle isole da parte del navigatore francese Louis Antoine de Bougainville, il cui equipaggio era in gran parte composto di uomini originari della città di Saint-Malo e volle anch’egli - per non essere meno dei suoi predecessori - ribattezzare le isole col nome di Malouines, in onore appunto della città bretone e dei suoi coraggiosi marinai. Qualche anno dopo gli inglesi fondarono la loro prima colonia a Port Egmont, nella parte settentrionale della Gran Malvina. Tutte queste presenze finirono per attirare l’attenzione della Spagna che finalmente protestò energicamente, rifacendosi all’assetto secolare stabilito dal Trattato di Tordesillas, mai contestato dalle altre potenze, secondo cui tutta la zona contesa rientrava nella sua sfera di influenza. Parigi e Londra si mostrarono in definitiva piuttosto propense al compromesso e decisero lo smantellamento delle loro colonie. Gli storici inglesi peraltro sostengono che l’abbandono dell’isola da parte di Londra fu assolutamente “volontario”, senza cioè rinunciare formalmente ai diritti della corona su Port Egmont. Sta di fatto che nel 1767 il governatore spagnolo di Buenos Aires, Francisco Bucarelli, prese possesso delle isole ribattezzandole Malvinas.
Nel 1820, quattro anni dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’Argentina, rivendicando i territori in base al principio dell’uti possidetis iuris (la delimitazione coloniale diventava il confine politico delle nuove entità statali), prese formale possesso delle isole rientranti nella competenza del Vicereame de la Plata e nominò David Jewet primo governatore. Successivamente novanta coloni argentini si installarono nell’agglomerato di case chiamato Puerto Soledad. A questo punto le cose si complicarono.
Gli inglesi avevano organizzato un vasta rete di punti di appoggio per il totale controllo dell’Atlantico meridionale (Ascensione, Sant’Elena, Gough e Tristan da Chua). Mancavano però le Falkland! Strategicamente essenziali, soprattutto nel periodo in cui si stava passando dalla navigazione a vela a quella motore. Assumeva di conseguenza assoluta priorità la “politica delle basi”, considerata la perdita di autonomia delle navi che, se non erano più soggette alla volubilità dei venti, erano però condizionate dalla possibilità di rifornirsi in combustibile.
In tale contesto Londra decise nel 1833 di prendersi o riprendersi le Falkland. Il momento del resto era favorevole. L’Argentina era alle prese con immensi problemi politici ed economici interni e il dittatore Rosas si trovava in pessimi rapporti con gli Stati Uniti ed altri paesi del continente. Così quando la corvetta inglese Clio entrò nel piccolo porto di Puerto Soledad nel gennaio del 1833, al comando di James Onslow, i fanti di marina presero possesso delle isole senza incontrare grosse difficoltà, né si registrarono particolari prese di posizione sul piano internazionale, a parte le proteste argentine. Puerto Soledad cambiò nome, diventando Port Stanley. Cominciava l’”usurpazione britannica”.
La disputa giuridica
L’Argentina durante più di un secolo e mezzo ha continuato a rivendicare la sovranità sulle Malvine, basando la propria posizione sul fatto di aver ereditato direttamente dalla Spagna tutti i territori continentali e insulari già appartenenti alla Corona di Castiglia. Inoltre Buenos Aires reclama i diritti acquisiti durante l’occupazione effettiva dell’isola dal 1820 al 1833. Gli inglesi, invece, insistono sulla tesi della “scoperta” da parte di Davis e sulla successiva occupazione della Gran Malvina. Inoltre precisano che l’abbandono di Port Egmont nel 1774, fu dovuto a “ragioni di bilancio” e “contingenti”. Durante i negoziati con la Spagna del 1771 Londra avrebbe chiaramente manifestato la volontà di mantenere i propri diritti di sovranità sulle isole. Alle proteste argentine dopo l’occupazione inglese del 1833, il Primo Ministro Palmerston rispondeva che la Gran Bretagna non poteva consentire ad “un altro stato di esercitare un diritto ottenuto dalla Spagna, diritto che la Gran Bretagna aveva tolto alla Spagna stessa”. Tesi per la verità alquanto contorta…. In effetti che senso avrebbe avuto l’accordo anglo-spagnolo del 1771, quando appunto era la Spagna che chiedeva il rispetto del Trattato di Tordesillas e quindi il ripristino della sua sovranità sulle isole? In tempi più recenti - alla vigilia della Prima Guerra mondiale - le argomentazioni britanniche cercarono di concentrarsi sulla più credibile e presentabile figura giuridica della Prescrizione Acquisitiva o Usucapione. Ma in questo caso gli inglesi avrebbero dovuto dimostrare l’inerzia della controparte. Circostanza che non si può dire si sia verificata: Buenos Aires ha costantemente contestato l’occupazione del 1833. E poi non tutti i giuristi ammettono l’esistenza dell’Usucapione nel dritto internazionale, considerandolo una tipica figura del diritto privato interno.
Negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale sembrò che i due paesi non fossero lontani dal raggiungere un accordo. L’Inghilterra avrebbe volentieri visto l’Argentina nel campo dei propri alleati e si mostrò disponibile a qualche concessione. In quegli anni si parlò certamente del Lease-Back come possibile soluzione dell’annoso problema. All’Argentina cioè sarebbe “ritornata” la sovranità sulle isole dopo una lunga “locazione” all’Inghilterra, che per tutto il periodo avrebbe avuto il pieno controllo dell’Amministrazione. Progetto evidentemente ispirato alla speciale situazione di Hong Kong, ceduta in affitto dalla Cina alla Gran Bretagna nel 1898 e tornata alla piena sovranità cinese nel 1997, sia pure con uno statuto di vasta autonomia amministrativa. Finita la guerra, l’ipotesi fu abbandonata e gli inglesi tornarono alle loro tradizionali tesi della prescrizione acquisitiva. Un documento del Foreign Office del 1946, pur definendo la spedizione del 1833 “un atto di aggressione ingiustificabile”, fa leva sulla effettività dell’occupazione e sul lungo tempo trascorso per sostenere i diritti di Londra. Gli argentini dal canto loro hanno aggiunto in anni recenti un ulteriore elemento a sostegno delle loro tesi, alla luce delle evoluzioni del diritto del mare. Le isole, cioè, rientrerebbero interamente nel perimetro della Piattaforma Continentale, il prolungamento naturale del Land Territory dello stato costiero, poiché non si registrano mai più di 200 metri di profondità tra il continente e l’arcipelago. Il che conferirebbe all’Argentina quanto meno diritti di sovranità in materia di sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse – marine e sottomarine – naturali, biologiche e non biologiche in tutta al zona della Piattaforma. Tesi difficilmente, come si vede, conciliabili.
Errori, incomprensioni e malintesi
Alla vigilia dell’invasione argentina, il processo di cooperazione economica e commerciale anglo-argentina, prevista da uno specifico accordo firmato nel 1971 sotto gli auspici dell’ONU, aveva raggiunto risultati incoraggianti. Sul piano culturale erano state stabilite borse di studio in favore degli alunni malvinesi al fine di stimolarne la frequenza nei collegi continentali. Era stato inoltre concordato l’invio di un certo numero di maestri e professori dal continente per l’insegnamento dello spagnolo e della storia e letteratura argentine. Nel cruciale settore dei trasporti e delle comunicazioni si erano registrati notevoli miglioramenti. Progressi anche nella collaborazione sanitaria: ai malati gravi veniva assicurato ricovero e assistenza nell’ospedale “Alvear” della città argentina di Comodoro Rivadavia. Aumentavano, con reciproca soddisfazione, le esportazioni argentine di beni molto richiesti dagli isolani: scarpe, vestiti, impianti di riscaldamento, cucine, pezzi di cambio, elettrodomestici ecc… L’organismo nazionale argentino del gas (Gas del Estado) aveva costruito nell’isola di Soledad un grande stabilimento per immagazzinare gas propano da distribuire in bombole agli isolani. Insomma si era avviato un sistema di relazioni tese a raffreddare le reciproche diffidenze, sviluppare la reciproca conoscenza e meglio individuare reciproche convenienze. Un clima in definitiva di collaborazione e di rispetto delle proprie peculiarità etniche, culturali e linguistiche in vista di possibili forme di compromesso sul problema principale della sovranità. Che cosa allora spinse i militari argentini a voler riprendere con la forza le isole nell’aprile 1982? E quali gli errori della Giunta di Galtieri e le incomprensioni britanniche?
Il regime militare, al potere dal 1976, era oramai agli sgoccioli, screditato dai fallimenti nel settore economico e dalle rivelazioni sempre più precise sulla tragedia dei desaparecidos. Una favorevole soluzione della storica questione delle Malvinas avrebbe certamente fatto dei militari i protagonisti della causa nazionale, per la quale verosimilmente gli argentini erano disposti a dimenticare, se non a perdonare, molto. La sola causa del resto che avrebbe potuto coagulare il consenso degli argentini che fin da bambini imparano a considerare le isole parti integranti del territorio nazionale, la sola ragione suscettibile di far vibrare all’unisono le corde più profonde della sensibilità nazionale. Ma la Giunta commise tre errori principali.
Il primo, e più evidente, fu quello di non aver saputo prevedere la reazione britannica. Confidando nella distanza e nel “fatto compiuto”, i militari argentini speravano di ottenere almeno una parziale soddisfazione alle loro richieste, convinti che l’opinione pubblica internazionale sarebbe stata più sensibile alle motivazioni di una lotta anticolonialista che non ad una crociata di kiplinghiana memoria del tipo “Rule, Britannia, on the waves”. Si sbagliavano: avevano del tutto sottovalutato il “fattore Thacther”!
Il secondo, determinante errore fu nel non aver capito (complice forse qualche maladresses del Dipartimento di Stato…) che gli Stati Uniti, costretti a dover scegliere tra la solidarietà interamericana (quasi tutta per l’Argentina) ed i legami atlantici, alla fine non avrebbero potuto non schierarsi a fianco della Gran Bretagna, il tradizionale alleato “speciale”. Importantissimo infatti si rivelò il supporto militare dato da Washington a Londra (logistica, fornitura di armi sofisticate come i missili Sidewinder AIM-9L più performanti di quelli inglesi o sistemi anti-aereo Stinger, utilizzo dei satelliti spia Big Bird e Key Hole ecc….).
Il terzo, fatale errore fu quello di non aver saputo approfittare dei margini di manovra che pur si intravedevano nelle varie proposte di mediazione avanzate, da quella del Segretario di Stato americano, Alexander Haig a quella dell’ONU, fino a quella del Presidente peruviano Bealúnde Terry. Tutte proposte dove la condizione preliminare era costituita dal ritiro delle truppe argentine dalle isole. Condizione che i militari argentini mai presero in considerazione, precludendosi così ogni possibilità di dialogo per ottenere almeno qualche risultato parziale, come ad esempio l’amministrazione Onu dell’arcipelago in attesa di specifiche intese con gli inglesi.
Se gli argentini hanno commesso diversi errori, gli inglesi sono stati fuorviati da malintesi, incomprensioni e miopi prospettive. Innanzitutto essi non hanno mai voluto realisticamente riconoscere che il benessere degli isolani - situati a 12.000 chilometri dalla madre patria - dipende in gran parte dagli argentini, a soli 400 chilometri dalla costa. Soprattutto per quanto riguarda i settori vitali dei trasporti aerei e marittimi, l’assistenza sanitaria e gli scambi commerciali. Avrebbero forse dovuto coltivare meglio l’idea di collaborare con gli argentini – come avevano iniziato a fare nel 1971 – evitando di dare la sensazione che i negoziati si sarebbero protratti all’infinito. Sensazione sulla quale hanno fatto leva i militari argentini per giustificare la loro iniziativa.
Londra ha poi sottovalutato l’intensità emotiva che la causa delle Malvine suscita negli animi argentini, che non hanno certo rinunciato al loro storico obiettivo e potrebbero anche riservare sorprese in futuro. L’atteggiamento “colonialista” di Londra ha per di più alimentato un persistente sentimento anti-inglese nel sub continente, riaccendendo vecchie passioni per dottrina Monroe. Per avere ragione degli avversari Londra ha dovuto, d’altra parte, impegnare una parte significativa della sua flotta, togliendo così all’Alleanza Atlantica un contingente notevole di forze aereo-navali che normalmente debbono essere messe a sua disposizione e passare eventualmente sotto suo comando entro brevissimo tempo (le forze “assegnate” alla NATO). Un intervento “fuori area” insomma realizzato senza un’adeguata consultazione con gli alleati e, soprattutto, senza un approfondito esame delle misure necessarie a compensare il vuoto lasciato dagli inglesi nel dispositivo militare atlantico. Un vuoto non trascurabile se si pensa che nella fase finale della guerra la Gran Bretagna è arrivata a schierare 42 navi da guerra (tra cui 4 sottomarini nucleari d’attacco), 50 mezzi da trasporto, 40 caccia bombardieri (Harrier e Sea Harrier) , 2 squadroni di Avro Vulcan e Nimrod, un certo numero di Phantom e Hercules C130, 200 elicotteri di vario tipo ecc…Decisione considerata rischiosa e criticata da diversi alleati. Londra tuttora non sembra disposta a fare la benché minima concessione e deve mantenere nelle isole, a costi elevatissimi, un importante dispositivo militare (“la fortezza Falkland”) per scoraggiare eventuali tentazioni di Buenos Aires, esasperando in tal modo i rapporti non solo con l’Argentina, ma anche con altri paesi dell’area. Un primo, poco incoraggiante segnale in questa direzione è arrivato di recente dalla decisione adottata, per solidarietà con l’Argentina, da Uruguay, Cile e Brasile di vietare l’ingresso nei loro porti di navi battenti bandiera della Falkland (l’Union Jack su fondo blu con stemma raffigurante i simboli delle isole: pecora e vascello).
Conclusioni
A trent’anni dalla fine della guerra, la tensione, come abbiamo visto, è ancora ben presene nel Sud-Atlantico. Le rivendicazioni argentine rimangono immutate, la determinazione britannica pure. Che cosa è lecito allora presagire per il futuro delle isole? Spingere le due Parti - come del resto da anni si sforza di fare l’ONU - sulla graduale ripresa dei contatti senza pregiudizi, senza pre-condizioni, senza finalità prefissate, ad agenda aperta. Riprendere, ad esempio, il discorso della collaborazione opportunamente avviato nel 1971 e traumaticamente interrotto dal conflitto bellico. Un discorso cioè teso ad abbattere le reciproche diffidenze e ad assicurare il rispetto delle reciproche peculiarità. Un discorso che faccia intravedere formule dove conciliare le ragioni della Geografia (le isole sono a 12.000 chilometri della Gran Bretagna e a 400 chilometri dall’Argentina) e della Storia (l’occupazione inglese del 1833 fu in sostanza un’usurpazione) con quelle del Diritto Internazionale (autodeterminazione dei popoli, aspettative argentine per la Piattaforma Continentale). Un discorso dove contemperare i desideri (di cui si fanno interpreti gli inglesi) e gli interessi (che gli argentini dicono di rappresentare) degli abitanti delle isole. Senza considerare poi il costo astronomico sopportato da Londra per mantenere permanentemente mille uomini in assetto di combattimento e 4 navi da guerra per la difesa di tremila isolani (che hanno acquisito la piena cittadinanza britannica solo dopo il conflitto). Si è calcolato che in teoria costerebbe molto meno trasferire l’intera popolazione Kelpers in Gran Bretagna. Un discorso dove con gradualità potrebbero finalmente emergere posizioni meno oltranziste, realiste e desiderose di superare una controversia per molti aspetti anacronistica e, alla lunga, dannosa per tutte le parti in causa.
Storie Insolite della 2a guerra mondiale
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15/09/2024Mostra tutto